C’è qualcosa di profondamente magnetico nel lavoro di Guy Nechmad Stern. Le sue fotografie del corpo maschile non sono solo immagini: sono confessioni visive, racconti di pelle, luce e ombra, in cui la bellezza queer emerge in tutta la sua autenticità.
Con uno stile che mescola tradizione e intimità, Guy riesce a trasformare ogni scatto in un momento sospeso, dove sensualità e vulnerabilità convivono in perfetto equilibrio.
Il suo approccio non è mai banale. La queerness, per Guy, è prima di tutto un’espressione naturale, lontana da cliché o stereotipi. Eppure, c’è sempre un tocco di ironia nella sua visione, una consapevolezza giocosa che sfida chi guarda a lasciarsi coinvolgere.
Non si tratta solo di corpi, ma di connessioni: le sue fotografie parlano di attrazione, di contatto – fisico o emotivo – e di quella delicata tensione che esiste tra il toccare e l’essere toccati.
Guy lavora con la stessa macchina fotografica che ha catturato le immagini della sua infanzia, un dettaglio che aggiunge un livello di intimità alla sua pratica. Ogni scatto diventa così un gesto simbolico, un modo per riprendere possesso della memoria, trasformandola in arte.
Radicato in un’estetica senza tempo, Guy affronta il cambiamento della rappresentazione queer con una prospettiva unica. Non si lascia influenzare dalle tendenze, ma rimane fedele alla sua visione personale, esplorando la fisicità e l’emozione in modo sincero e diretto.
Le sue immagini non sono solo belle, sono disarmanti, capaci di catturare quel momento fugace in cui qualcuno si sente davvero visto.
Con il suo mix di provocazione, eleganza e introspezione, Guy Nechmad Stern ci invita a guardare oltre la superficie. Le sue fotografie non sono solo un’ode al corpo maschile, ma un dialogo aperto sulla bellezza, la memoria e l’identità queer.
Come descriveresti il tuo approccio alla fotografia in tre parole?
Intimo, senza tempo, sensuale.
Le tue immagini hanno un’aura quasi palpabile, spesso sensuale e vulnerabile. Come scegli i soggetti da ritrarre?
Mi sento attratto da soggetti che sembrano genuinamente interessati a essere fotografati o che, in modo naturale, offrono la loro immagine a me. Onestamente, è un’intuizione, basata sulla mia attrazione naturale, che seguo sempre. Può trattarsi di un’attrazione fisica, ma di solito è qualcosa di molto più profondo. Detesto l’idea di avere un qualche tipo di potere nella mia selezione: in genere accetto chiunque sia interessato e disposto a collaborare. Per me, si tratta di un’espressione reciproca.
Se potessi fotografare una figura iconica (viva o morta) in un nudo artistico, chi sceglieresti?
Wolfgang Tillmans.
Quanto del tuo lavoro è una celebrazione della fisicità, e quanto un’introspezione emotiva?
Cerco di raggiungere entrambe, simultaneamente.
La rappresentazione queer nel nudo maschile è cambiata nel tempo? In che modo?
Assolutamente sì, la rappresentazione queer nella nudità maschile è cambiata notevolmente: oggi assistiamo a uno spettro molto più ampio di visibilità ed esposizione. Tuttavia, non considero necessariamente il mio lavoro come un riflesso di questo cambiamento. In molti modi, mi sento radicato in pratiche e temi tradizionali. La queerness, per me, riguarda la semplicità dell’autenticità e dell’espressione, e anche se il panorama è cambiato, il mio approccio rimane fedele alle mie esperienze e prospettive.
Forse non la cerco deliberatamente, dato che tutto ciò che faccio verrà comunque etichettato come “gay”, quindi è divertente giocare con questa idea.
Hai mai scattato una foto che ha cambiato il modo in cui vedi la sessualità?
No.
Qual è una fantasia che non hai ancora realizzato?
Scrivere e dirigere un lungometraggio.
Qual è la cosa più importante che hai imparato sulla bellezza lavorando come fotografo?
La bellezza è incredibilmente dinamica; scorre dall’interno verso l’esterno e viceversa. Si tratta di catturare quel momento trasformativo in cui qualcuno inizia a sentirsi bello, ed è qualcosa di veramente coinvolgente.
Mostrare a qualcuno come vedo la sua bellezza attraverso i miei occhi, rivelando ciò che percepisco in lui, è una gioia elettrizzante e un enorme privilegio.
Ogni volta che ci riesco, si approfondisce il mio apprezzamento per la natura effimera e profonda della bellezza.
La tua macchina fotografica è un’estensione di te: quale parte del corpo sarebbe?
Le mani o le dita. La mia macchina fotografica è la stessa che ha scattato le foto della mia infanzia, rendendo tutto il mio archivio un gesto simbolico di prendere il controllo dei miei ricordi, di “prendere la macchina nelle mie mani”.
La mia fotografia riguarda davvero il tocco: come si può toccare senza toccare, e come il toccare possa far sentire intoccati.
Ho una fascinazione per la texture della fotografia, la pellicola esposta o la grana ruvida dell’inchiostro sulla carta, che riflette perfettamente l’intimità della mia pratica.
Che emozioni provi quando sei il soggetto di una fotografia?
Come qualcuno profondamente appassionato a osservare il mondo attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica, è gratificante essere guardato a mia volta. Porto con me tutti i ricordi e le associazioni legati allo scattare foto, eppure, quando sono il soggetto, ogni fotografo porta la propria attitudine unica, che finisce per trasformare anche me. È il mio Sole in Gemelli. Di solito non sono particolarmente attratto dal voyeurismo, ma nel contesto dell’arte trovo un immenso piacere nell’osservare o nel permettere al mondo di fluire dentro l’inquadratura. Diventa un affascinante scambio di prospettive, essere sia l’osservatore che l’osservato.